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Breve storia della sitcom [4/4]

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Raggiungere l’età della ragione significa cominciare a percepire il mondo allargato, sollevare i sipari attorno al nucleo familiare o alla classe delle scuole elementari, per formarsi una propria visione di insieme. Scegliere i propri filtri, sperimentare i propri modelli, assumere, per la prima volta e senza appello, la capacità di preferire. Quello che succede quando d’improvviso l’universo si dilata includendo il proprio punto di vista è qualcosa di sconcertante e indelebile. Un’impronta.

Ho avuto l’onore e l’onere di ricevere la mia personalissima impronta negli anni novanta, quando la televisione veniva definita una cattiva maestra, ma imperversava nei salotti e nelle cucine, blaterava e colorava i pomeriggi del doposcuola, fino all’ora di cena. Contribuiva — ma questa è una cosa che ho compreso molto tempo dopo — a globalizzare il mondo. Che bella espressione. I primi, incerti, passi all’interno dell’età della ragione servono per scegliere, senza alcuna perizia o conoscenza ma per puro istinto, il filtro da porre su tutto ciò che capiterà nel futuro. Chi voteremo alle elezioni, che studi decideremo di intraprendere, come e di cosa decideremo di parlare, se saremo o meno fumatori, cosa mangeremo e come ci vestiremo. Tutto dipende da quali sono i nostri modelli tardo-infantili e a poco o niente servono le deviazioni imposte da terzi, alla fine torneremo sempre all’origine. La televisione comica americana degli anni novanta: ecco la mia origine. George Costanza, Ray Barone, Frasier Crane, Becker. Ecco i miei modelli.

In queste settimane gran parte delle mie giornate è dedicata alla ricerca di un appartamento, dove stabilirmi verosimilmente per i prossimi dieci anni, fino a quando non sarò colto da una seconda età della ragione e non mi renderò conto non aver mai superato l’adolescenza. Di classi energetiche, ristrutturazione, mercato immobiliare, svalutazione, urbanesimo, non capisco nulla, quello che so è di quanto spazio vitale posso avere bisogno e che detesto l’umidità. Per il resto la mia ricerca si basa esclusivamente sull’impatto che le foto sui siti delle agenzie immobiliari hanno sulla mia sovrastimolata immaginazione — sono in attesa di una seconda età della ragione, l’ho detto. Dopo qualche giorno di ricerca e di appunti presi a mano, mi sono reso conto di poter individuare una mia “soluzione tipo”, come dicono i melensi agenti che ho avuto la fortuna di incontrare. Bilocale, intorno ai cinquanta metri quadri, cucina a vista ma in spazio definito — magari marcato da un muretto all’americana — composta di pensili sul grigio, affacciata su un open space che dia spazio a un divano, una TV, un tavolo (rotondo), qualche libreria, parquet, bagno piccolo con doccia, camera matrimoniale. Finestre sulla strada, è molto importante. La via, multientnica, deve essere movimentata e colorata. Sarebbe bello se ci fosse vicino un bar e uno di quei fruttivendoli con le tende verdi e la frutta esposta in cestoni obliqui. Mi basta mostrare alle agenzie la planimetria dell’appartamento di Seinfeld.

Ognuno torna alla propria origine e la mia è talmente ben delineata da farmi paura.

La fortuna — dei miei analisti più che altro — ha voluto che gli anni della mia formazione cosciente fossero quelli in cui le sitcom si preparavano a restituire al pubblico tutto quello che avevano mutuato dalla vita reale nei decenni precedenti e a dare vita al macrouniverso che oggi è allargato a tutte le serie. Una realtà parallela che nessuno più si sognerebbe di definire irreale, ma che anzi viene presa a paragone così spesso e con così tanta perizia da risultare estremamente più efficace della vita di tutti i giorni.

Il 17 Dicembre del 1989 debuttava quella che sarebbe diventata la sitcom più longeva della storia della televisione. Materiale accademico, studiato, riverito, citato, portato a esempio. Un prodotto così influente da diventare il marchio di tre generazioni, universale e diretto al punto di coniare un neologismo utilizzato in tre lingue — d’ho — e da farsi portavoce della classe media, non soltanto americana, ma di tutto il mondo occidentale. Non c’è nemmeno bisogno di citarne il titolo.

Matt Groening, creatore dei Simpson, ha aperto la strada al rilancio delle sitcom animate. Sono numerosissimi gli esempi di produzioni che hanno esplorato il genere: South Park, che ha spezzato le barricate ed è saltato direttamente oltre il limite del concesso, King of the hill, passato a noi più che altro attraverso le citazioni, Beavis and Butt-head, fino, verso la fine del decennio, a quel genio di Seth McFarlane che inventava Family Guy (I Giffin), disegnandoli, animandoli, doppiandoli e rendendoli reali. Senza che nessuna di queste abbia però ancora eguagliato i record della famiglia gialla – 27 Emmy, 30 Annie, un Peabody, la copertina di Time nel 1999 e la Hollywood Walk of Fame. Non male per cinque personaggi inesistenti.

Per quanto riguarda il filone classico, i novanta sono una specie di esplosione e le serie prodotte sono come migliaia di lapilli che svolazzano liberi e pericolosi attraverso le prime serate dei vari network. Il filone familiare affermatosi negli anni ottanta va piano piano affievolendosi. Resiste la già citata Roseanne, alla quale si affiancano il gioiello di Ray Romano Everybody loves Raymond (Tutti amano Raymond), Home improvement (Quell’uragano di papà) — con un ben allenato Tim Allen — Unhappily ever after (E vissero infelici per sempre), The Nanny (La tata), Harry & the Hendersons (Harry e gli Henderson) — con una leggera deviazione verso il fantastico, rappresentata da Harry, un bigfoot spesso più sensato degli umani — TheFresh Prince of Bel-Air (Willy il principe di Bel-Air) — che sposta solo leggermente la voce narrante, dandole il volto di un adolescente Will Smith — e Family matters (Otto sotto un tetto), ognuna con le proprie croci, che siano gli ascolti, le defezioni del cast o i ripensamenti del network. Quella che funziona davvero, in compenso, è l’innovativa dimensione dei trentenni single a New York City.

Seinfeld batte la strada, escludendo all’improvviso figli e rapporti fissi, ed esplorando gli intrecci possibili tra amici, vicini, conoscenti, parenti ingombranti ed ex fidanzati. Il genio è quello di Jerry Seinfeld — per l’appunto, intorno al quale la serie è costruita — e Larry David, ma mettiamoci anche la prestanza di Micheal Richards, Jason Alexander, Julia Louis-Dreyfus, Wayne Knight e l’immenso Jerry Stiller. Otteniamo qualcosa che ha il potere di plasmare una mente acerba e costringerla, vent’anni dopo, a farsi fregare dagli agenti immobiliari. La formula è quella che col tempo diventerà classica: un gruppo di amici ben assortito, appartamenti, vicini di casa, due ambienti definiti — generalmente quello domestico e quello pubblico, una caffetteria — situazioni al limite del surreale.

Seguono a ruota e senza uscire dal seminato — ma davvero quasi nessuno uscirà dal seminato d’ora in poi — Frasier – costola di un ante litteram autorevole come Cheers, capolavoro di raffinatezza anche per il suo deviare la mira dai trentenni a un ambiente più maturo — Friends, che non ha alcun bisogno di presentazioni, nel bene e nel male, e Will & Grace. Per il resto, complice l’abbandono della VHS per un ritorno al 35mm, che meglio si presta alla crescente diffusione dell’alta definizione, e quindi un graduale spostamento verso un unica macchina da presa e un montaggio cinematografico, si apre a ventaglio uno spettro di possibili sperimentazioni. C’è Sabrina, the teenage witch (Sabrina, vita da strega) che mescola il fantasy alle serie adolescenziali utilizzando come spalla alla protagonista un pupazzo-gatto legnoso e saltellante, The king of Queens, che sembra voler compiere un passo avanti nella vicenda dei single accasandoli, sostanzialmente, e si avvale di un magnifico Kevin James e di una gradevolissima Leah Remini, a cui si associa facilmente Mad about you (Innamorati pazzi). Becker è una piccola chicca cresciuta nel cuore di Bronx, con un Ted Danson in forma smagliante nella parte di uno scorbutico medico di quartiere, mentre That 70’s show torna a pizzicare le corde del revival, magari senza l’innovazione rappresentata a suo tempo da Happy days, ma senz’altro con alcune trovate geniali — una delle quali, permettetemi, è Ashton Kutcher in persona.

Le trame si fanno complesse, e la maggior parte delle serie comincia a utilizzare espedienti mutuati dalle soap, come i cliffhanger a fine stagione di cui Friends è stata maestra. Si diffonde l’utilizzo del ciclo narrativo lungo — story arc — non più autoconcludente ma esteso a tutta la serie, che fa da apripista alla trasformazione dei primi anni duemila, incarnata da Scrubs, che merita una citazione pur trovandosi di qualche anno fuori target, anche soltanto per aver sovvertito il sistema così profondamente da rendere necessaria questa mia lunga e noiosa tetralogia.

Così, mentre io stipavo nel cervello una quantità immensa di informazioni inutili, a discapito di altre decisamente più fruttifere — come per esempio cos’è un infisso a tenuta stagna — le sitcom concludevano il loro ciclo e si preparavano a ritornare in un angolo del palinsesto per sbucare di tanto in tanto, come quell’unica risata registrata fuori tempo che insiste quando l’esplosione della gag è già passata, rendendo tutto molto più spontaneo.

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